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La semplificazione è il segno dell’intelligenza,
un antico detto cinese dice:
quello che non si può dire in poche parole
non si può dirlo neanche in molte.Bruno Munari
Molti progettisti e altrettanti committenti sono convinti che la grafica sia fatta di poco, che meno si mette meglio è, che il “less” sia sempre “more” e il minimalismo una religione.
Se è vero che ci sono ragioni storiche, progettuali e pratiche per questo tipo di approccio, è importante capire che lo spazio vuoto nella grafica ha una sua funzione e un suo significato, ma non basta a fare “grafica”.
Non fidatevi di chi si appella a “giapponesismi” o “scuole svizzere” per realizzare prodotti scarni, lineari, senz’anima. L’estremo minimalismo che si è diffuso in una parte di progettisti ha reso la grafica sì più raffinata, concettuale, funzionale, ma ha creato anche un modo facile, veloce e ripetitivo con cui molti credono di poter accedere velocemente ad un metodo progettuale vincente.
Per capire il vuoto, bisogna per forza di cose pensare alla storia della grafica e cercare di ripercorrere velocemente alcune tappe in modo da capire perché un certo tipo di grafica continui a mietere successo tra gli addetti ai lavori.
Il novecento: la grafica sposa la tecnologia
Tutto probabilmente iniziò nei primi del Novecento, quando la grafica da fatto meramente tipografico e artigianale, si trasforma in un processo industriale, più complesso; si riduce l’intervento fatto a mano per privilegiare la meccanica e la razionalità della grafica.
Sono gli anni Venti, l’epoca del Bauhaus di Weimar, di El Lisitsky e il Costruttivismo Russo, del minimalismo giapponese: la grafica è informativa e funzionale, si ribella al naturalismo, sposa l’Astrattismo e celebra il secolo della tecnologia.
Lo spazio vuoto è necessario ad equilibrare o esaltare le forme geometriche, i colori forti, la prevalenza del carattere tipografico sull’illustrazione.
Si aprono grandi campiture di colore in pagine e poster a dimostrare le nuove capacità di stampa della tipografia moderna.
Il troppo pieno diviene sinonimo di folclore, di naturalismo e riporta ad un atteggiamento naif da rifuggire per chi, con il progetto grafico, sente la missione di dover parlare ad un nuovo mondo e portare la rivoluzione.
Succede invece che ogni “regime” riporta la grafica ad una visione popolaresca, quasi infantile, semplice e retorica, mentre il graphic design vero e proprio resta confinato all’industria e a certi ambienti culturali e editoriali. Il vuoto diviene quasi una scelta d’élite, austero e poco emozionale.
Il design industriale e il modernismo
Con la scuola Svizzera che tanto eco avrà in Italia, con Massimo Vignelli, con l’esplosione del Design Industriale di prodotto, grazie a studi grafici coraggiosi e a creativi fuori dai canoni come Bruno Munari, il vuoto continuerà ad essere utilizzato, adattandosi a mille usi e sfruttando tutto il suo potenziale attrattivo.
La grafica però ne risente e spesso perde qualsiasi leggerezza, si asciuga fin troppo, resta legata all’uso del font Helvetica, a palette cromatiche minime fatte di colori primari, perdendo il gusto per la sperimentazione e il rischio che altri progettisti in tutto il mondo continuano a coltivare in modo anarchico. Molte aziende amano questo tipo di grafica perché sinonimo di modernismo, design e innovazione tecnologica, lontana dalla natura e dal mondo ottocentesco.
Il cliché del vuoto: la “moda” del minimalismo
Col tempo la situazione si ribalta e, da rivoluzionaria, la grafica del vuoto si trasforma in maniera, in reiterato cliché, in approccio progettuale facile da ripetere e buono per tutte le stagioni, da insegnarsi a scuola e da copiare a non più posso, schiacciando con la funzionalità ogni impulso creativo. Diviene il pretesto per mille giochi grafici da condividere sul web con alla base un’idea estrema di minimalismo, in cui si cerca di dire tutto con un unico elemento, solleticando chi di un argomento (film, libro, dottrina filosofica, etc) può riconoscerne anche i rimandi più nascosti.
L’uso consapevole del “vuoto”: per calmare lo sguardo e fare chiarezza
Fuori da questi clichè, i progettisti hanno continuato ad usare e sfruttare lo spazio vuoto per comunicare: lo dimostra la grande varietà di stili e contaminazioni della grafica contemporanea (consiglio la lettura di “Geografie del Graphic Design”, ebook gratuito, per orientarsi nella sua grande varietà di stili) in cui il vuoto è usato sia per chiarezza e funzionalità che per eleganza, sia per rigore che per gioco, sia per dare risalto a pochi elementi sia per creare straniamento.
Si può dire che il vuoto nella grafica e nelle altre discipline della comunicazione visiva sia quanto mai richiesto per la sua capacità di calmare l’occhio, di riposare la mente e fornire chiarezza. In un mondo iperconnesso, in cui tutto si può conoscere e condividere, lo spazio vuoto della grafica aiuta a recuperare l’attenzione dello spettatore, a parlare in modo chiaro quando si informa e a condurre in modo deciso all’acquisto il consumatore, a mostrare il poco che basta per farsi capire.
Il consiglio che sembra arrivare da molti progettisti degli ultimi anni è di mettere poco ma fatto bene, anzi benissimo, di curare ogni dettaglio e creare un solo elemento di interesse in ogni prodotto. Possiamo dire che la grafica contemporanea, anche quando è eccessiva, pop e piena, sembra aver imparato la lezione di rigore ed essenzialità del vuoto e quando è ben progettata riesce a mantenere naturalezza senza essere naturalistica.
Altrimenti rischiamo di far sentire lo spettatore come appena entrato nel freddo rendering di una stanza vuota…