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La punteggiatura: un alleato per l’efficacia dei tuoi testi
Quando parliamo di scrittura per la comunicazione non possiamo trascurare l’importanza della punteggiatura. Utilizzare in modo consapevole punti, virgole e altri segni di interpunzione può realmente migliorare l’efficacia del testo di una brochure aziendale, di un articolo destinato al web o del titolo per una pagina pubblicitaria. In questo articolo cercheremo di spingerci un po’ oltre le tradizionali competenze di base, per scoprire nozioni più specifiche e spendibili sul lato professionale.
Il punto fermo in pubblicità
Iniziamo con il punto: forse il segno d’interpunzione che dischiude più sorprese tra tutti e che ha subito l’evoluzione maggiore. La prima nozione che occorre conoscere è che la scuola tradizionale dell’advertising prevede l’impiego del punto fermo al termine di ogni headline, ovvero del titolo che campeggia sulle pagine pubblicitarie o sui poster affissi in città. È una convenzione nata molte decadi fa, in ambito anglosassone, il cui evangelizzatore nel nostro Paese è stato Emanuele Pirella, uno dei padri del copywriting italiano. Il motivo? I titoli pubblicitari non bastano a se stessi, ma sono parte di un discorso che si articola anche attraverso le immagini.
Mentre i titoli dei quotidiani esauriscono il loro compito e non necessitano di immagini, se non a scopo puramente documentativo, in pubblicità i titoli vivono in stretta relazione con un’immagine (definita in gergo: visual). Il punto finale sta a indicare proprio questo: si tratta di frasi, ovvero porzioni di un discorso, che dialogano con altre porzioni di discorso costituite da immagini.
E se è vero che già nei primi anni Duemila qualche agenzia di pubblicità interpretava questa regola con una certa elasticità, è altrettanto vero che fino all’avvento della Rivoluzione Digitale il punto a fine titolo era uno dei segni distintivi della pubblicità con la P maiuscola.
Il punto fermo in ambito digitale
Abbiamo appena scoperto che il titolo della tua prossima pagina pubblicitaria dovrebbe, per convenzione, avere il punto fermo alla fine. Nell’ambito dell’advertising professionale raramente, per non dire mai – come vedremo presto – si utilizzano altri segni come il punto esclamativo o i tre punti di sospensione.
I titoli di un articolo di blog o del paragrafo di una brochure sono invece più simili a quelli di matrice giornalistica ed editoriale e non richiedono alcun segno di interpunzione al termine. Va detto che in entrambi i casi – che si tratti di advertising o di contenuti editoriali – se il titolo contiene una domanda, è corretto concludere con il punto interrogativo.
E sui contenuti dedicati alle piattaforme sociali?
Da alcuni anni a questa parte email, sms e soprattutto i programmi di messaggistica istantanea ci hanno abituato a un uso della punteggiatura meno sintattico e più emotivo: sempre di più la punteggiatura serve a trasmettere emozioni piuttosto che a esplicitare le caratteristiche logiche e sintattiche di un testo scritto. Se fino a pochi anni fa la scrittura serviva per costruire relazioni attraverso un mezzo non istantaneo – ovvero la carta stampata di un quotidiano, di un libro, di un poster, di un volantino o di una rivista – oggi tende a evolversi verso una forma di oralità scritta, che possiede la stessa immediatezza o quasi, di una chiacchierata con un amico. Ecco allora che punti fermi, esclamativi e di sospensione servono sempre più a sostituire le espressioni del volto e i gesti delle mani: forniscono informazioni su come l’interlocutore dovrà interpretare le nostre parole, in mancanza di segnali visivi e uditivi tipici di una chiacchierata.
In questa fase di evoluzione, il punto fermo è forse quello che ha subito l’evoluzione più ampia e definitiva: terminare un messaggio di WhatsApp o di Messanger con il punto non è più considerata un’operazione neutra, che indica semplicemente la fine della frase. Al contrario viene letto come irritazione, sarcasmo, distacco, scontentezza. Detto in altre parole: in questi contesti il punto è diventato un’emozione.
Ecco perché in questi anni di cambiamenti post Rivoluzione Digitale, troviamo spesso compresenti entrambe le posizioni: da una parte professionisti che non rinunciano all’uso classico del punto anche quando si occupano di progetti prettamente digitali, come la creazione di contenuti per un brand, dall’altra professionisti che evitano di usarlo per scelta, magari persino su annunci stampa e poster. Tra questi due estremi trovano posto tutte le sfumature di grigio. Un consiglio di buon senso può essere quello di valutare caso per caso, evitando integralismi di ogni tipo e ragionando anche in base al target di destinazione del progetto.
Punto esclamativo e punti di sospensione. Sì o no?
Nell’ambito della comunicazione professionale il punto esclamativo e i tre punti di sospensione vanno usati con molta cautela. Impiegarli per ottenere enfasi in un caso, o un effetto sorpresa nell’altro, è un po’ come aggiungere additivi a un liquore perché non si riescono a ottenere gli aromi desiderati attraverso un sapiente invecchiamento. In altre parole: se nel tuo titolo il punto esclamativo è l’unico elemento che indica enfasi, significa che non hai scelto con cura le parole.
Lo stesso vale per i tre punti di sospensione, specialmente se usati per preparare a una seconda parte di frase, che dovrebbe spiazzare il lettore. Nella realtà rovinano invece tutta la sorpresa, proprio perché la anticipano. È come se un comico avvertisse che sta per fare una battuta, prima di farla.
Va detto però che in ambito digitale, specialmente nella sfera dei contenuti di brand per pagine Facebook o profili Instagram e Twitter, l’approccio emozionale al testo ha favorito una certa diffusione di questi segni di punteggiatura, guardati invece con molto sospetto dai professionisti dell’advertising più classico. Diciamo allora che se proprio hai intenzione di utilizzarli, è bene ricordare questo: mai più di un punto esclamativo e, soprattutto, mai più di tre punti di sospensione, né meno. Non si tratta di punti affiancati a piacere, ma di un unico segno di interpunzione codificato. Magari non te ne eri mai accorto, ma quando digiti tre punti uno a fianco all’altro, il programma di scrittura attua una leggera correzione e li tramuta – cambiando un poco la dimensione e la distanza tra essi – nel giusto segno.
E dopo i puntini occorre la maiuscola oppure no?
È corretta la minuscola se intendete riprendere la frase che avevate interrotto. Al contrario, è preferibile la maiuscola per indicare un cambio di senso più marcato.
Virgolette (e parentesi)
Veniamo ora alle virgolette e alle parentesi (queste ultime molto impiegate oggi). Partiamo dalle prime: perché mettere tra virgolette un vocabolo? Spesso lo si fa per sottolineare la polisemia di una certa parola, impiegata in modo creativo. Ma mettere tra virgolette quella parola equivale a dichiarare la nostra sfiducia nei confronti del lettore. Come nel caso dei puntini, la sorpresa viene rovinata perché si è presi dall’ansia di voler essere proprio sicuri che venga compresa. Leggiamo questo titolo:
Il guaio dei non vedenti è vivere in un mondo di ciechi.
È un titolo scritto dalla copywriter Roberta Sollazzi per una storica pagina pubblicitaria, che invitava ad assumere comportamenti più consapevoli riguardo i non vedenti. Il visual mostrava un’auto malamente parcheggiata sul marciapiede. L’efficacia di questa frase sta ovviamente tutta nel fatto che, il termine ciechi, è usato in senso lato e diventa un attributo morale anziché fisico. I veri ciechi, ci ammonisce l’annuncio, siamo noi che vediamo, ma per pigrizia preferiamo fingere di non vedere che la nostra maleducazione può avere conseguenze spiacevoli. Ora immaginiamo il titolo scritto in questo modo:
Il guaio dei non vedenti è vivere in un mondo di “ciechi”.
Credo lo si noti bene: la magia smette di fluire, imprigionata dalle virgolette: la mente non compie più un percorso, perché ha ricevuto un segnale di stop che gli indica che è proprio in quel punto che deve fermarsi. Il lettore non partecipa più al gioco della comunicazione, ma lo subisce.
E le parentesi?
Un tempo impiegate raramente nei testi per la comunicazione professionale, godono oggi di una sorprendete diffusione. Nelle newsletter, nei titoli di articoli per blog, ma anche nei contenuti digitali per i network sociali, si leggono spesso headline scritte in questo modo:
Sette cose che dovresti (davvero) sapere sulla punteggiatura
È un uso delle parentesi piuttosto forzato, che stiracchia un poco l’impiego che se ne dovrebbe fare secondo la grammatica: questo segno d’interpunzione servirebbe per inserire all’interno di una frase un’informazione complementare o esplicativa senza interrompere il senso generale. Il motivo principale per cui si è diffuso nei titoli è semplice: nei contesti digitali gli autori disputano ogni giorno una vera e propria guerra per accaparrarsi un po’ di attenzione da parte di lettori sempre più sovrastimolati e distratti. Le parentesi nei titoli non sono altro che uno stratagemma per fermare lo sguardo del lettore, spiazzarlo almeno un poco, incuriosirlo e magari invitarlo a leggere l’intero contenuto. Ma quindi? Usare o non usare le parentesi? Questo è un (bel) dilemma, che lascio volentieri al lettore.