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Come viene comunicato il no-profit oggi?
Se prendessimo un manuale accademico, alla voce Pubblicità Sociale troveremmo una definizione simile a questa:
Comunicare messaggi di utilità sociale, che non hanno come fine una vendita, attraverso i linguaggi e gli strumenti propri dell’advertising.
Eppure, questa definizione è semplice solo in apparenza: se partiamo dal presupposto che l’advertising nasce come linguaggio per supportare le imprese e contribuire all’incremento delle vendite, ci è difficile capire perché dovremmo ricorrere a questo linguaggio, per comunicare qualcosa che non ha a che fare con le imprese e che non ha come fine una vendita. Dopotutto sarebbe come usare un martello, per tentare di avvitare un bullone, no?
Come vedremo in questo articolo, è proprio analizzando questa frizione tra intenti e linguaggio, che possiamo comprendere davvero l’evoluzione della comunicazione sociale e la direzione verso cui si è diretta nello scenario contemporaneo.
Come nasce la pubblicità sociale?
Le radici occidentali della pubblicità sociale si possono rintracciare nel War Ad Council, nato nel 1942 negli Stati Uniti, per promuovere la causa della Seconda Guerra Mondiale e sostenere l’impegno dei civili. Divenuto presto semplicemente Ad Council, promuove da molti anni campagne contro bullismo, obesità, disabilità e altre tematiche di rilevanza sociale.
In Italia si può trovare qualcosa di simile nell’organizzazione Pubblicità Progresso, che dal 1971 si presentò come un organismo super partes per promuovere campagne ritenute di rilevanza pubblica.
Causa Vs Pubblicità
È in questi primi anni che matura, in Italia e nel mondo, una certa idea di pubblicità sociale, fortemente incentrata sul Fear Arousing Appeal: un linguaggio carico di minacce, shock, colpevolizzazioni. La pubblicità sociale sembra cioè rifiutare con ostentazione la gamma di emozioni propria della comunicazione commerciale e la sensazione è che per rispettare certe cause non si possa che ricorrere a toni mesti, cupi, drammatici. In questi anni la frizione tra causa da promuovere e linguaggio tipico dell’advertising è altissima e la causa tende a presentarsi a chi deve comunicarla come sacra e intoccabile. Questa bella sequenza del film “No. I giorni dell’arcobaleno” mette in scena perfettamente il durissimo scontro tra le aspettative della committenza circa il linguaggio da usare e le difficoltà del comunicatore, che tenta la via di toni più solari e positivi, tipici della pubblicità di prodotto.
La crisi di un linguaggio e l’ingresso dei brand
Negli anni Novanta il linguaggio ortodosso della comunicazione sociale entra in crisi: la psicologia conferma il rifiuto del pubblico di messaggi troppo shockanti e drammatici e le istituzioni non sempre sono pronte per immaginare e usare nuovi linguaggi. In Italia le campagne istituzionali diventano ogni giorno più discrete, informative, irrilevanti. Ma la nostra storia ha un colpo di scena: sono i brand, per paradosso, che entrano in scena e riempiono il vuoto istituzionale. Laddove ministeri e organizzazioni non riescono più a comunicare, si fanno avanti i brand, che possono permettersi nuovi linguaggi per uscire dal loop della “Pubblicità sociale che parla il linguaggio della pubblicità sociale” e tentare approcci più nuovi, sorprendenti, capaci davvero di fare breccia nelle persone. Si veda per esempio questo spot di MTV contro la guida in stato di ebbrezza. Naturalmente un brand ha certamente fini di lucro e quando comunica per una causa sociale, lo fa anche con l’intenzione di migliorare la propria reputazione e continuare a essere scelto dal proprio pubblico. Il fine della comunicazione sociale diventa meno netto e così il confine tra non-profit e profit.
Una fotografia contemporanea della comunicazione non-profit
Oggi il confine tra linguaggi sembra essere totalmente saltato, e la granitica certezza della definizione con cui abbiamo aperto questo articolo dimostra più di qualche crepa.
- Da un lato, nel paesaggio contemporaneo, uno dei video pubblicitari più visti nella storia di youtube è la celeberrima Dumb ways to die: una campagna sociale istituzionale (il committente è la società che presiede la Metro di Melbourne) che si appropria di uno stile e di un linguaggio tipicamente commerciale, per esortarci a non attraversare i binari e metterci in pericolo di morte. Pupazzetti collezionabili, affissioni interattive, persino un’app con cui giocare; non manca niente di ciò che l’advertising commerciale ci ha insegnato.
- Dall’altro abbiamo brand che si appropriano di cause sociali e talvolta anche di linguaggi che alludono all’era più cupa e drammatica di quest’area della comunicazione, per perseguire fini che mescolano rilevanza sociale e brand reputation. È il caso per esempio dell’operazione che Ikea fece in collaborazione con la Croce Rossa, per sensibilizzare il pubblico circa le guerra in Siria: in esposizione all’interno dello store, come fosse un ambiente qualsiasi, una casa distrutta dalla guerra.Quest’ultima operazione è un chiaro esempio di Cause Related Marketing, che già abbiamo toccato su questo blog, e che può essere inscritto nel più ampio orizzonte del Brand Activism: la direzione che hanno intrapreso molte aziende, ogni giorno più consapevoli del proprio ruolo verso la collettività, ma anche di quanto il loro spendersi per il sociale possa diventare strategico come leva di marketing per migliorare la propria brand reputation e creare forti legami con i consumer. In questo tipo di operazioni non-profit e profit sono chiaramente mescolate.
Comunicare il sociale, oggi. Un vademecum possibile
A conclusione del nostro excursus, tentiamo un umile vademecum per aiutare il progettista ad approcciarsi in modo funzionale a un progetto di comunicazione non-profit.
1. Definiamo un obiettivo
Una campagna non-profit può avere tre obiettivi:
- Informare circa una causa
- Modificare una percezione
- Modificare un comportamento
Prima di iniziare un progetto, dobbiamo chiarire a noi stessi l’obiettivo che ci poniamo. Se la causa è poco nota, informare potrebbe già essere più che sufficiente; se su un certo argomento si è instaurato un falso mito o un pregiudizio di qualche tipo, potremmo tentare di modificare la percezione. Cambiare un comportamento è difficile, ed è per esempio l’obiettivo della campagna Dumb ways to die.
2. Superiamo il tono di voce da “campagna sociale”
Il nostro primo ostacolo siamo noi stessi e il nostro pregiudizio sul sociale, comunicato ancora con un tono da “campagna sociale”. Resistere alle tentazioni del dramma a ogni costo, della sacralità della causa, dell’apparentemente inevitabile contrizione, e tentare la via della sorpresa, dell’inatteso, dello spiazzamento, sembra oggi il solo modo davvero efficace per costruire progetti rilevanti.
3. Se usiamo un approccio shock, cerchiamo di equilibrarlo
Se in ogni caso riteniamo che il nostro progetto non possa prescindere da un approccio basato sullo shock, cerchiamo almeno di equilibrarlo. La psicologia ci raccomanda di evitare shock troppo elevati, perché tendono a essere rimossi. Ma non cadiamo nell’errore contrario: minacce troppo blande non sono ovviamente rilevanti. Una buona norma è uno shock credibile, bilanciato da un’indicazione chiara e pragmatica per migliorare la situazione. Per esempio: una pagina Alfa Romeo mostra un apribottiglie riverso in una chiazza di vino, alludendo a una morte causata dalla guida in stato di ebbrezza. Lo shock, già in parte mitigato dalla scelta del linguaggio simbolico anziché realistico, è sostenuto da un’indicazione diretta e semplice: ci dice che la guida e il vino sono entrambi piaceri. Basta non mischiarli.
4. Né troppo didascalici, né troppo criptici
La creatività è centrale nella comunicazione sociale, come in quella commerciale. Un messaggio troppo letterale e piatto non coglie l’attenzione del pubblico potenziale ma arriva al massimo a persone già sensibilizzate circa il tema che stiamo comunicando. Il rischio è che non serva a molto. Ma evitiamo anche messaggi troppo arzigogolati e inutilmente laterali, se questo significa rendere il messaggio troppo complesso da decodificare. Qualunque sia l’obiettivo che vi siete prefissati, per raggiungerlo è bene riuscire a costruire un messaggio sorprendente, ma chiaro.
5. Contaminare la campagna
Se è vero che il confine tra linguaggi sociali e commerciali è oggi molto labile, allora vale la pena ricorrere alle strutture dell’advertising anche per contaminare i messaggi non-profit: guerrilla, ambient, attivazioni; tutto è possibile, se utile alla nostra causa.