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Si chiama Newtrain Manifesto. Redatto da un gruppo di studenti della Scuola Holden a fine 2019, è un documento in 30 tesi dichiaratamente ispirato al celeberrimo Cluetrain Manifesto. Prima di entrare nel merito degli intenti e dei contenuti è forse il caso di prendere un po’ di rincorsa e tornare indietro nel tempo fino al 1999. È in quell’anno che Rick Levine, Christopher Locke, Doc Searls e David Weinberger pubblicarono le 95 tesi del Cluetrain Manifesto, con l’intenzione di dare una scossa decisiva al mondo del marketing, che ancora sembrava sottovalutare l’impatto di Internet sul mercato e sui rapporti tra persone e aziende.
Il Cluetrain manifesto: cosa ne resta oggi?
La tesi fondamentale del Cluetrain manifesto sosteneva che Internet non poteva essere considerato semplicemente un nuovo medium di massa alla stregua di tv, radio e stampa, perché possiede una componente rivoluzionaria: la possibilità di conversazioni orizzontali e libere tra persone. Internet si configurerebbe quindi come un ambiente di dialogo trasversale, dove le imprese non avrebbero mai più potuto essere padrone assolute dei messaggi. Per un’impresa comunicare, secondo questa visione, significherebbe sempre meno lanciare messaggi alle masse e sempre più riuscire a intrattenere dialoghi orizzontali, continuativi e trasparenti con le persone, oggi molto più libere di informarsi, rispondere, creare e organizzarsi in masse critiche rispetto all’era pre-digitale. A sintetizzare questa prospettiva, la prima sibillina tesi, perentoria come un oracolo.
I mercati sono conversazioni.
Sono le parole più significative del Manifesto e probabilmente quelle che meglio di tutte hanno saputo, per così dire, fotografare il futuro: nell’era digitale in cui siamo immersi oggi le persone hanno realmente avuto accesso a una possibilità che ha sovvertito le regole del gioco: creare contenuti di comunicazione e intercettare l’interesse di altre persone, dialogando con loro. In altre parole, tutti possono conversare con tutti e spesso i nuovi consumatori-creatori si dimostrano capaci di catalizzare l’attenzione del pubblico almeno quanto le stesse imprese: i loro contenuti, sui canali digitali, totalizzano visualizzazioni perché vengono percepiti come più liberi, autentici, trasparenti e privi di secondi fini. Le imprese hanno così dovuto imparare a scendere dal piedistallo e smettere di calare messaggi dall’alto. Le nuove direttive sono: ascoltare le persone, intercettarne i bisogni reali, attivare conversazioni e tentare di gestirle nel modo più trasparente possibile. Tutto è andato come previsto dal Cluetrain Manifesto, quindi? Internet ha liberato le persone dalla passività e ha in qualche modo costretto le grandi marche a rivedere intenti e obiettivi in un’ottica di maggior trasparenza e capacità di confronto con il pubblico? A dire il vero, sembra proprio di no.
Eppure, qualcosa non quadra
La tesi fondamentale del Cluetrain Manifesto si è dimostrata un’acuta lettura della realtà. Internet ha dato il potere alle persone di condividere orizzontalmente informazioni, formare masse critiche, rispondere alla pari ai contenuti aziendali e talvolta ottenere persino più riscontro di pubblico rispetto ai grandi brand. Eppure, per altri versi, la rete appare un ambiente molto lontano rispetto alla fotografia che possiamo leggere nelle 95 tesi degli autori. Più che un ambiente libero e democratico, dove reperire informazioni e condividerle con altri, il web dà spesso l’impressione di essere un luogo perennemente interessato, dove le informazioni stesse non sono affatto libere né prive di fini, ma rispondono a evidenti necessità di mercato. È in questo contesto che dobbiamo leggere l’insorgere di fenomeni come le fake news, il clickbaiting, lo spam: ricerche spasmodiche di interecettare l’attezione delle persone e attivare una grande massa di conversazioni, proprio perché le conversazioni sono diventate il nuovo mercato. E quindi? Oggi Internet è un luogo di libertà o un ambiente tossico e opaco? Difficile rispondere. Ma l’emergere di queste tendenze non è ignorabile.
Trasparenti nella forma, opache nei contenuti
Le aziende hanno imparato in fretta a mimare il linguaggio del pubblico. Ma spesso il tono di voce diretto, informale, colloquiale e finalmente libero dai toni enfatici che caratterizzavano l’advertising del secolo precedente, è solo un cavallo di troia per abbassare le difese del pubblico e continuare a perseguire i medesimi obiettivi di sempre: far parlare di sé, creare bisogni e vendere servizi superflui.
L’innocenza perduta del pubblico
Oggi il pubblico è molto diverso rispetto alla visione angelicata che sembra emergere dal Cluetrain Manifesto. L’epoca ingenua in cui le persone caricavano tutorial su Youtube con il reale intento di aiutare altre persone sembra appartenere al Pleistocene. Così come le aziende hanno imparato a mimare i linguaggi delle persone, allo stesso modo le persone hanno imparato a usare le stesse strategie delle aziende: produrre contenuti non già come fine, quanto piuttosto come strumento per genereare moli significative di conversazioni, che possono diventare monetizzabili (ospitando pubblicità su una piattaforma o collaborando direttamente con le stesse aziende in qualità di influencer o content creator). Se da un lato le persone si indignano per questa o quella pratica aziendale, dall’altro impiegano spesso i medesimi meccanismi: usare i contenuti come strumento per monetizzare. Se ho 100.000 follower su Instagram, posso chiedere diversi quattrini a un’azienda per creare un contenuto in collaborazione con essa. Oramai è chiaro anche al più sprovveduto degli utenti: più persone ottengo che dialogano con me, più possibilità ho di guadagnare. Non c’è alcun male, in astratto. Ma nel concreto questo meccasismo si traduce spesso in un’esasperata ricerca, da parte dei creatori, di realizzare contenuti che abbiano sempre maggiori probabilità di essere condivisi e ottenere conversazioni in rete, privilegiando la carica virale rispetto alla qualità.
L’influencer marketing
Non è difficile leggere il fenomeno dell’influencer marketing come la risultante diretta dei primi due punti. Gli influencer devono il loro successo alla capacità di saper parlare orizzontalmente alle altre persone. Più sono in grado di farlo, più generano conversazioni. Ecco perché le imprese collaborano con loro. Dopotutto è una legge antica quanto l’uomo: se non puoi battere il tuo nemico, alleati con lui. Vale a dire: se come impresa vieni percepita lontana e opaca e non riesci a mantenere conversazioni orizzontali con un pubblico, alleati con chi lo sa fare meglio di te. Influencer e content creator, d’altra parte, si dimostrano entusiasti di collaborare con le aziende, perché è una via molto diretta verso la monetizzazione. Quel rigido confine tracciato nel Cluetrain Manifesto, che vede le orribili e opache marche da una parte della barricata e le angeliche masse di pubblico dall’altra, è saltato da tempo.
La disgregazione del confine tra contenuto editoriale e pubblicità
In un mercato dove la mole e la qualità delle conversazioni è diventata la vera ricchezza, le aziende tendono a produrre contenuti che assomigliano sempre meno a pubblicità e sempre più a informazioni o intrattenimento. La ragione è molto semplice: questi contenuti funzionano meglio di altri per intercettare pubblico e generare conversazioni. Ma è davvero un bene per l’utente? Se un tempo era facile distinguere una pubblicità da una notizia, perché confinata in un break televisivo o in uno spazio chiaramente distinguibile su una rivista, oggi non è più così semplice. Anche perché le aziende finiscono spesso per collaborare con magazine e testate online. Il risultato? Notizie talvolta opache, dove il confine tra l’intento di informare e quello di vendere sembra non essere più così distinguibile. Paradossalmente, invece di liberare l’informazione, Internet sembra aver contribuito a renderla più opaca e confusa con la pubblicità.
Il fenomeno del Greenwashing
È il paradosso dei paradossi: l’etica è diventata merce. La partecipazione a cause sociali da parte delle aziende e la comunicazione della propria responsabilità sociale sono diventati veri e propri trend per intercettare il favore del pubblico. L’impressione è che tendano a volte a divenire azioni strumentali, anziché fini da perseguire con convizione, qundo non vere e proprie invenzioni di marketing. Sembra che saper raccontare di essere green paghi di più che esserlo davvero. È il fenomeno del greenwashing, ovvero lavare la propria coscienza in pubblico, senza cambiare davvero in profondità, al solo fine di ottenere nuovi consensi.
Newtrain Manifesto. Un treno arrivato in ritardo?
È in questo clima di delusione rispetto alle promesse disattese dei brand, che dobbiamo leggere le 30 tesi del Newtrain Manifesto: un manifesto generazionale (gli autori avevano, al momento della pubblicazione, dai 19 ai 29 anni) e un modo per alzare la testa e pretendere dalle imprese un cambiamento più profondo. Non a caso le tesi sono 30, come gli anni che ci separano da quel 2050 indicato come il punto di non ritorno per il collasso del pianeta.
Ma quali sono i contenuti del Newtrain Manifesto? Che cosa chiede la nuova generazione di comunicatori alle imprese e alle marche? Esprime una visione nuova della realtà? Rispondiamo per punti.
I contenuti del Newtrain Manifesto
Dalle 30 tesi del Manifesto emergono sacrosanti bisogni di trasparenza, verità, ricerca di senso. L’ecosostenibilità non può più essere un vanto pubblicitario, si legge per esempio alla tesi numero uno. Seguono, in altri punti, precisazioni sull’equità dei diritti, sul trattamento dei lavoratori, sulla presa di coscienza relativa all’impatto delle produzioni. Si percepisce un forte disagio circa l’uso opaco dei big data e la strumentalizzazione delle battaglie sociali. Più etica, più trasparenza, più generosità. Il compendio è completo, con tutti i temi che ci si aspetterebbe di trovare da una generazione di ragazzi che, alla tesi numero venti, dichiarano esplicitamente: Non siamo arrabbiati, siamo solo delusi.
I limiti del documento
Quello che troviamo nelle 30 tesi è significativo perché è l’espressione diretta di una generazione di persone dichiaratamente deluse dalle modalità con cui le aziende continuano a relazionarsi con il pubblico. Ma è forse in quello che manca, che il Manifesto diventa icona generazionale. Se le 95 tesi del 1999 ebbero il merito di fotografare la realtà così come nessuno ancora riusciva a vederla, e a restituire un’immagine futuribile del mercato, qui nessuna tesi introduce una lettura nuova del presente e del prossimo futuro. Più che l’espressione di una prospettiva, il Newtrain Manifesto è soprattutto la dichiarazione di un disagio. È un dato saliente: conferma che le nuove generazioni non si sentono affatto liberate da Internet. Piuttosto, sono consapevoli della realtà in cui ci troviamo e deluse da un mercato che ha saputo piegare ancora una volta una rivoluzione tecnologica a proprio vantaggio. Non ci può essere futuro, gridano le nuove generazioni alle aziende, se non cambiate sul serio.
Non c’è futuro, senza responsabilità
Le nuove generazioni non vedono futuro perché non possono vederlo. Dichiarano, deluse, di sentire il bisogno di più etica, più trasparenza, più generosità, più bellezza, più senso. Hanno ragione. Ma forse un appunto si può annotare, a margine: il Newtrain Manifesto sembra essere scritto ancora dal punto di vista del Cluetrain Manifesto, quando Internet era gli albori.
Gli autori, pur immaginando molto di quanto sarebbe accaduto, si muovevano ancora in una realtà dove il confine tra aziende e persone era granitico e inscalfibile. Ma quel confine, proprio come le mura di Gerico, è saltato da tempo, lo abbiamo visto in questo stesso articolo. Le aziende hanno imparato a mimare le persone per continuare a esistere. Ma è altrettanto vero che anche le persone hanno imparato a mimare le strategie aziendali e a trasformare in profitto la propria capacità di costruire consenso nel pubblico.
In questo contesto ha ancora senso demandare il cambiamento alle imprese, dicendo loro cosa dovrebbero o non dovrebbero fare? Ha ancora senso considerarci così piccoli, ingenui e impotenti da dover demandare a chi consideriamo più grande, scaltro e forte di comportarsi in modo migliore?
Forse, se stiamo davvero rischiando di portare il mondo al tracollo, potremmo provare a considerarci un po’ più autori del cambiamento e un po’ meno spettatori delusi. Se il mondo non ha senso è colpa dei brand, ma anche nostra. I brand non sono etici, ma non lo siamo nemmeno noi. I brand tendono a privilegiare contenuti che generano molte conversazioni, per continuare a monetizzare. Ma lo facciamo anche noi.
Se chiediamo ai brand di essere più capaci di generare bellezza, dobbiamo saperla creare noi per primi. Dopotutto se le aziende sono così preoccupate di cosa noi pensiamo di loro, significa che probabilmente sono terrorizzate dal potere che abbiamo, e di cui forse non siamo ancora del tutto consapevoli.
Forse il prossimo Manifesto non dovrebbe essere rivolto alle imprese, ma a noi stessi, in quanto persone, lavoratori di imprese, comunicatori, esseri umani responsabili e capaci di accettare che un cambiamento va intrapreso anche e soprattutto all’interno di noi. Più etica, più trasparenza, più generosità, più bellezza: iniziamo a pretenderle anche da noi stessi. Se non c’è più tempo per le imprese, non c’è più tempo neanche per noi.