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Per anni abbiamo posto alla base delle marche la creazione della Brand Platform. Ora, con l’intelligenza artificiale, possiamo e dobbiamo orientarci verso gli AI Brand. Ma come?
Capiamolo insieme in questo articolo.
Brand, Branding e Brand Platform
Come ci insegna il maestro Seth Godin e come ormai abbiamo ben compreso anche grazie ai contenuti del blog, un brand è l’insieme delle aspettative, delle memorie, delle storie e delle relazioni che, insieme, incidono sulla decisione di scegliere un prodotto piuttosto che un altro.
Alle fondamenta della costruzione di una marca di valore sta in effetti la piattaforma di marca (Brand Platform). Essa contiene le linee identitarie che permettono ai brand di comunicare la propria unicità chiarendo:
- mission
- vision
- posizionamento
- purpose
- benefit
- personalità
- elementi visual e visual thinking
- stile di comunicazione e tono di voce
La sua funzione è fondamentale: incidere direttamente sulle associazioni di archetipi profondi, significati e simboli che emergono nella mente quando si entra in contatto con un brand.
Il concetto di piattaforma di marca è valido tuttora, indispensabile in agenzie e studi grafici per interagire con i propri clienti per progettare un posizionamento di brand valido e d’impatto. Ma oggi non è più sufficiente, perché racconta solo una parte limitata dell’ampia trasformazione che sta vivendo il mondo della pubblicità e dell’advertising. Occorre completarlo con un approccio arricchito.
Arricchito, ma da cosa? In primis, dal contributo ormai indispensabile delle intelligenze artificiali.
Cosa sono le intelligenze artificiali e qual è il loro potenziale?
Intelligenza artificiale, un argomento ormai sulla bocca di tutti. Nonché un tema dinamico e in continua mutazione. Se Wikipedia ne dà infatti una prima definizione come “disciplina che studia i fondamenti che consentono la progettazione di sistemi hardware e di programmi software capaci di fornire all’elaboratore elettronico prestazioni che, a un osservatore, sembrerebbero essere di pertinenza esclusiva dell’intelligenza umana” – Richard (padre) e Daniel (figlio) Susskind dall’Università di Oxford mettono in guardia su tre bias che non permettono di leggere correttamente i sentieri dell’innovazione.
Tra questi, compare l’AI fallacy: sostanzialmente, non possiamo più pensare che le intelligenze artificiali generino come migliore performance possibile la simulazione del comportamento umano. Al contrario, le AI stanno dimostrando di potere fare anche molto di più, in meno tempo.
Ora, la domanda dell’articolo diventa urgente: quali sono gli impatti che l’intelligenza artificiale e la sua trasformazione esponenziale nel tempo stanno avendo per il brand building?
Una Brand Experience “aumentata”
Analizzando da vicino i brand che negli ultimi anni sono entrati nelle case e nella vita delle persone, vediamo che le marche maggiormente capaci di attrarre e coinvolgere hanno lavorato sugli aspetti di antropomorfizzazione. Ovvero, sull’attribuzione di caratteristiche e qualità umane a entità inanimate come le marche o le aziende. Partendo dai livelli più profondi e archetipici, dalle forme pre-esistenti nell’immaginario e nelle menti delle persone.
Analizzando i casi di Nike, Marlboro e tanti altri, le ricercatrici Margaret Mark e Carol Pearson hanno individuato 12 archetipi da applicare alla costruzione di brand iconici, che si posizionano e rimangono nel cuore dei propri clienti.
Secondo i principi del branding archetipale, è fondamentale per ogni marca rilevante identificare il proprio archetipo di riferimento e “seguirne le orme” in ogni azione. Ricordi personaggi come Bibendum (l’Omino Michelin) o le forme umane date alle confezioni di profumi La Femme e Le Male dello stilista Jean-Paul Gaultier?
La domanda, allora, diventa:
i discorsi che legano marche e archetipi, valgono anche al tempo delle interfacce conversazionali abilitate da virtual assistant e piattaforme digitali?
Certo, anzi: piattaforme (nonché brand ai vertici globali per valore finanziario e reputazione) come Microsoft, Google, Amazon e Netflix sono andate ancora oltre, facendo vivere gli archetipi attraverso un lavoro molto accurato e puntuale su tono di voce, sesso, modalità più efficaci di interazione. Per esempio, ecco un’intervista alla donna che ha originariamente prestato la voce a Siri. Ricordi il film del 2013 Lei (Her), premio Oscar per la miglior sceneggiatura originale, che racconta la storia d’amore tra l’essere umano Theodore e il (sensuale) sistema operativo OS 1 Samantha? Penso a chatbot e AI Assistant come Alexa, Cortana, Siri, che fanno della capacità di generare empatia e vicinanza la leva per sedimentarsi nel quotidiano di tutti noi. Tanto che una delle sfide di questi anni dell’intelligenza artificiale è quella di fare scherzi e giocare con le persone, e che le proiezioni di osservatori privilegiati come il MIT di Boston hanno ben descritto il cammino di Alexa nel diventare migliore amica (e non solo…) delle persone più anziane. Già Siri diventa gelosa se viene chiamata per errore con il nome di Alexa 🙂
AI Branding
“Esseri” artificiali dai toni persuasivi, con forti personalità. Capaci di dare vita a flussi conversazionali naturali e coerenti. Si apre un tema centrale per sviluppare i brand di domani: un tema che integra tecnologia, design, creatività e storytelling. In effetti, secondo il Chief Strategy Officer di Iris Ben Essen:
“costruire una AI personality non è solo un problema per Google, Apple e Amazon. Si tratta di un impegno per qualsiasi brand che desidera comunicare direttamente con le persone.”
Ben Essen si spinge oltre parlando di autonomous brand: quando le marche iniziano a vivere da sole, all’interno delle tasche o delle case delle persone. Capital One e Samsung, rispettivamente con Eno e Bixby, hanno già sviluppato i propri autonomous brand. Così come Google, Huawei, Amazon e molti altri.
Un cambiamento rivoluzionario ma rischioso, perché “diventerà impossibile passare le conversazioni più complesse all’ufficio dedicato, per fare in modo che questo le tratti una alla volta – le tecnologie di intelligenza artificiale dovranno cavarsela da sole all’interno di scenari sfidanti, non prevedibili e non conosciuti”.
Come persone ci comportiamo diversamente in funzione al fatto di trovarci a un appuntamento, con gli amici o a un colloquio di lavoro. Per guadagnare la nostra fiducia, queste nuove personalità delle AI dovrebbero essere capaci di conoscere il contesto allo stesso modo. D’altronde le conversazioni sono sfumate, ognuna racconta una storia diversa.
Oren Jacob, per più di vent’anni in Pixar e ora Engineering Manager in Apple, usa una metafora: “si può pensare alle conversazioni delle macchine come uno screenwriting interattivo. Scriviamo le linee 1, 3, 5 e 7 ma poi, sfortunatamente, non abbiamo alcun controllo di ciò che può succedere alle linee 2, 4, 6 e 8” . Tutti noi sappiamo quando la nostra conoscenza raggiunge il limite e dobbiamo dire fermarci alzando bandiera bianca. Ma cosa faranno gli autonomous brand? Diranno anche loro “non lo so”, temporeggeranno per guardare Wikipedia, tireranno a indovinare?
Ciò costringerà dunque a evolvere le marche, rendendole più complesse per rispondere con efficacia alle chiacchierate creative e uniche con gli individui. Veri e propri personaggi (character), del tutto simili agli esseri umani, con ruoli marcati e sfumature articolate.
Nei prossimi anni la maggior parte delle attività di marketing e di creazione di nuovi brand riguarderà gli autonomous brand, alimentati grazie a tecnologie potenziate dall’AI come la natural language generation (NLG) e il text to speech (TTS), alla continua ricerca di nuovi modi per coinvolgere le persone.
AI Brand con un’anima forte e un po’ di magia, progettati per l’incertezza. Per una brand experience unica.