L’ascesa degli influencer virtuali: ragioni, etica e un esempio di successo

L’ascesa degli influencer virtuali: ragioni, etica e un esempio di successo

Alberto Maestri Pubblicato il 7/8/2024

Questo articolo è stato pensato e scritto in collaborazione con Federica Morichetti, Copywriter e Content Manager in GreatPixel.

Il settore dell’influencer marketing – leva di comunicazione e marketing oggi fondamentale per qualsiasi azienda – è diventato, da qualche anno, sempre più complesso. A causa delle controversie che hanno coinvolto grandi e piccoli influencer, richiamando il bisogno di leggi più severe, le aziende sono sempre più restie ad affidarsi a persone reali per promuovere i propri prodotti. 

Gli influencer in carne e ossa portano con sé una quota di imprevedibilità insita nella natura umana: essi in effetti invecchiano o possono “fallire” (come il caso del Pandoro Gate ha mostrato con grande forza). Per questo, sempre più brand – anche molto importanti – si rivolgono a influencer virtuali.

Ne è un esempio Lil Miquela: la star virtuale che, con oltre 2,6 milioni di follower su Instagram, ha stretto partnership di successo con brand come Prada e BMW.

Influencer virtuali: chi sono e come nascono?

Gli influencer virtuali sono il frutto della commistione fra diverse discipline: dall’intelligenza artificiale, alla CGI, passando per la realtà aumentata, il motion capture e il machine learning.

Non si tratta di una novità dell’ultimo periodo, ma ha dei precedenti. Uno dei primi esempi di successo risale al 1996 con la prima pop star virtuale (come la definisce questo articolo del 1997 di Entertainment Weekly) Kyoko Date. L’avatar, dalle sembianze di una tipica idol giapponese, riscosse grande successo scalando le classifiche nazionali con i suoi brani.

Oggi le influencer virtuali, per la maggior parte femminili, sono ovunque. Con l’evolversi delle tecnologie, combinato all’aspetto spesso patinato delle foto di influencer reali, riuscire a distinguere le une dalle altre diventa sempre più complesso. A questo si aggiunge la tendenza di attribuire agli avatar delle caratteristiche distintive che li renda sempre più “imperfetti” per aumentarne il realismo. 

Ne sono un esempio le lentiggini e il leggero diastema di Lil Miquela, o nel caso di Nefele, la prima virtual influencer italiana, la vitiligine. Insomma, bellezze volutamente non convenzionali, multietniche e gender fluid; studiate per rispecchiare il gusto estetico delle ultime generazioni e, paradossalmente, rispondere all’esigenza degli utenti di modelli di riferimento che celebrino l’unicità degli esseri umani.

Influencer virtuali e l’effetto uncanny valley

Altrettanto realistico è il comportamento di questi avatar sui social. Dietro la loro creazione ci sono gli investimenti di start-up o grandi aziende, eppure, la comparsa sui social di queste creature virtuali raramente viene preannunciata. Compaiono sulla piattaforma spesso senza preavviso generando speculazione negli utenti e alimentando il mistero. Parte del loro successo è dovuto dalla capacità di spingere l’utente a indagare più a fondo e formulare teorie, lasciando sempre aperta la domanda su quanto (e se) ci sia di reale nei loro contenuti.

Le virtual influencer sono infatti abbastanza realistiche da aver ingannato inizialmente alcuni utenti, ma ad uno sguardo più attento emergono dettagli che svelano la loro natura artificiale. I capelli non sono mai abbastanza definiti, la pelle è fin troppo perfetta, gli occhi sono piatti e inespressivi. Insomma, basta un attimo e si entra subito nella cosiddetta Uncanny Valley o “valle perturbante”. 

La “valle perturbante” si basa sulla teoria degli anni ‘70 di Masahiro Mori, uno studioso di robotica giapponese. Masahiro dimostrò come l’umanizzazione dei robot sarebbe arrivata a un livello tale per cui l’iniziale reazione positiva di chi li osserva si sarebbe trasformata in repulsione.

La Uncanny Valley dà quindi il nome a quella strana sensazione che abbiamo quando vediamo qualcosa di estremamente simile ad un umano, ma non abbastanza. Qualcosa non va, non si comporta come farebbe una persona o notiamo dei dettagli che ne svelano l’artificiosità. Questa realizzazione ci provoca fastidio, disagio o inquietudine.

Eppure, è forse proprio in questo che si nasconde il successo delle virtual influencer. La sensazione di stranezza afferra l’utente, lo incolla allo schermo e lo tramuta in un follower. La curiosità è la chiave: l’autore di questi personaggi è sconosciuto e non se ne comprende l’esatto processo creativo. 

Ci si chiede quindi cosa ci sia veramente davanti alla telecamera quando sono immortalati a fianco di sportivi, cantanti e varie celebrità.

  • L’immagine è completamente virtuale o il corpo è quello di una modella?
  • E che succede quando hanno una voce: è artificiale o un doppiaggio?

Sono domande come queste, a cui i creatori furbescamente non rispondono, a trattenere l’attenzione del pubblico.

La regina dei virtual influencer: Lil Miquela

Miquela Sousa è la maestra assoluta dello sfumare i confini fra realtà e finzione. In arte Lil Miquela, è nata su Instagram nel 2016, ma oggi vanta una presenza affermata su tutte le piattaforme con 3,5 milioni su TikTok, oltre 1 milione su Facebook e un canale YouTube di successo. Nelle interviste e nei suoi video si definisce una ragazza californiana di 21 anni di origini brasiliane, cantante, modella e attivista. 

Oggi afferma con consapevolezza la sua natura artificiale, ma non è sempre stato così. Miquela è stata dal primo istante un’intelligente campagna di marketing basata, perlopiù, sull’elemento del mistero. Per i primi due anni dalla nascita del profilo non è stata rivelata alcuna informazione riguardo i suoi ideatori. Questo finché, nel 2018, è comparso un nuovo personaggio: Bermuda. Una modella caucasica che avrebbe hackerato l’account di Miquela, salvo poi svelare il trucco e aprire il sipario su Brud, l’azienda basata a Los Angeles autrice di entrambi i personaggi.

Nonostante questo, oggi Miquela si definisce un robot, dichiarando di avere un corpo fisico: una menzogna utile allo storytelling che la contestualizza in diverse situazioni tra cui festival, concerti e shooting.

Nel 2018 Miquela è stata inserita nella lista del Time delle 25 Personalità del web più influenti ed è oggi uno dei volti più richiesti dai brand, tanto da essere diventata ambassador della iX2, il nuovo modello 100% elettrico della BMW.

Francesca Giubelli, la prima influencer CGI italiana. Fonte: Profilo IG Ufficiale.

I possibili risvolti etici 

Osservando questo fenomeno, sorge spontaneo il dubbio su quanto gli influencer virtuali possano sostituire quelli tradizionali. Non manca chi ipotizza scenari distopici in cui questi ultimi saranno completamente sostituiti da avatar. Nonostante ciò, l’alternativa virtuale non manca di aspetti problematici.

Anche in questo caso può essere d’esempio il caso Lil Miquela. L’influencer è una autodichiarata attivista ed è stata spesso associata a tematiche come il movimento Black Lives Matter o la difesa dei diritti LGBTQIA+. Anche da questo deriva probabilmente la scelta di attribuirle determinati tratti somatici, allo scopo di attrarre un pubblico più vasto e associarla al tema dell’inclusività. Questo approccio è stato ampiamente criticato in quanto viene spesso interpretato come una strumentalizzazione del tema per scopi di marketing.

Associare argomenti così delicati ad un personaggio virtuale può risultare rischioso, se non addirittura offensivo. È ciò che è successo nel 2019 quando Miquela ha pubblicato, sul suo canale Youtube, un video in cui raccontava di aver subito un episodio di molestia. La natura informale e leggera del contenuto, nel formato dello storytime, ha causato un moto di indignazione.

La consapevolezza che dietro gli influencer artificiali si nascondono delle aziende allarma gli utenti riguardo la possibile banalizzazione di questioni sociali come l’inclusività, il razzismo o il sessismo. Miquela parla spesso della sua salute mentale o del sentirsi discriminata in quanto non-umana, sebbene questo tipo di contenuti possano, in alcuni casi, lanciare un messaggio positivo, chi definisce i limiti di ciò che è eticamente accettabile? 

Al momento una vera risposta non c’è, ma non è impensabile che anche gli influencer virtuali possano, un domani, incappare in questioni regolatorie