“Influenza” digitale: la comunicazione dei Content Creator tra opportunità, scandali e normative

“Influenza” digitale: la comunicazione dei Content Creator tra opportunità, scandali e normative

Alberto Maestri Pubblicato il 12/9/2024

“Influenza” digitale: la comunicazione dei Content Creator tra opportunità, scandali e normative

Partiamo da una verità che possiamo ormai prendere come assoluta.

Nel marketing, gli influencer sono qui per restare.

Non ci credi? Ti basterà rileggere le parole di Joe Biden all’inaugurazione White House Creator Economy Conference, tenutasi in estate 2024. Già… i Content Creator alla Casa Bianca… chi lo avrebbe mai detto, anche solo pochi anni fa?

Oggi, è fondamentale immaginare un loro coinvolgimento all’interno del mix di canali, contenuti e strategie di qualsiasi azienda o brand che desideri comunicare con il proprio pubblico. Il loro peso a livello personale e sociale è talmente elevato da avere fatto introdurre da alcuni anni un concetto – appunto, quello di Creator Economy – che ne sostanzia l’impatto economico.

La Creator Economy è un ecosistema economico emergente che consente, praticamente a chiunque di guadagnare creando e distribuendo contenuti digitali.

Già… ma proprio chiunque? No! Non a caso, la Creator Economy si chiama anche Passion Economy: tutto infatti nasce da una predisposizione, un talento più o meno grande nel fare qualcosa capace di interessare le audience. Un altro nome che solitamente si dà a tale nuovo layer economico è Economia della Monetizzazione.

Per farci un’idea di quest’ultima dimensione, prendiamo spunto dall’ultima edizione (riferita allo scenario 2023) del Creator Earnings: Benchmark Report – sviluppato coinvolgendo più di 2.000 creator da tutto il mondo e ricco di insights.

  • Si stima che la Creator Economy genererà entrate per 480 miliardi di dollari entro il 2027, qualificandosi come il trend dalla crescita più rapida all’interno del panorama dei media digitali;
  • Il 50% degli intervistati (+10% rispetto allo scorso anno) indica l’attività di Content Creation come il proprio lavoro a tempo pieno;
  • Più del 90% dei Content Creator afferma che la maggior parte delle proprie entrate viene da collaborazioni con le aziende. Tra questi, i tech & business Creator appartengono a una nicchia profittevole che li porta a guadagnare più di 150.000 dollari all’anno;
  • Il 5% dei Content Creator misura il successo personale attraverso i tassi di engagement, il 32,5% lo misura attraverso il fatturato e il 9% lo quantifica attraverso il numero dei propri follower. Quest’ultima sappiamo bene essere una metrica che ormai dice poco, soprattutto per via del funzionamento degli algoritmi di TikTok e di altre piattaforme, ma tant’è… rimane, purtroppo, ancora una variabile presa largamente in considerazione dai Manager della Comunicazione aziendale.

L’identikit del Content Creator

Fino a qui, tutto bene. Ma chi sono i Content Creator oggi?

Sempre secondo il report globale appena citato, si tratta per lo più di persone tra i 25 e i 34 anni, con buoni livelli di formazione ed educazione scolastica.

Persone che ‘vivono’ (a livello mediatico e conversazionale) principalmente su Instagram, TikTok e YouTube, senza però dimenticare Twitch e i cari vecchi blog. Interessante anche l’espansione di alcune nicchie come Pinterest – quest’ultimo, molto utilizzato tra i professionisti del design e del food. Non a caso si tratta di alcuni dei temi più dibattuti e ‘battuti’ dai Content Creator!

Il ruolo dei Content Creator nel Communication Mix

Abbiamo tracciato un primo scenario sui Content Creator e sottolineato la loro importanza all’interno del Mix di canali, contenuti e iniziative di qualsiasi azienda. Già, anche quelle multi-business o le business-to-business!

Per quale ragione, come aziende e come decisori in tali aziende, dovremmo aprirci ai Content Creator per comunicare con il pubblico?

Negli ultimi anni, seguendo progetti di influencer marketing e di customer engagement per realtà di qualsiasi tipologia e settore merceologico, le ho man mano riassunte in tre principali. I Content Creator, alla comunicazione e al marketing organizzativo, servono a…

  1. … parlare con un essere umano: anche se ancora tanti si scandalizzano a leggere dei 10, 20, 30, 40, 50.000 Euro pagati da un’azienda per coinvolgere un Content Creator, dalla prospettiva del Manager che libera il budget si tratta spesso di una cifra irrisoria. L’avrebbe comunque speso in media su Facebook, Instagram o Google, con l’aggravante di pagare una macchina (il cui funzionamento non è ancora del tutto chiaro, e sempre meno lo sarà se pensiamo agli sviluppi dell’AI Generativa in questo senso – nonostante tutti cerchino di comunicarne solo gli effetti positivi). Meglio, molto meglio darli a una persona in carne e ossa, a cui chiedere i risultati a fine campagna. Insomma, torna la dinamica psicologica per cui ci fidiamo più di una persona che di un robot.
  2. … agilizzare le decisioni: un conto è dire di cavalcare i trend, un altro è farlo davvero. Tra la decisione iniziale e il risultato finale si aggiunge infatti una fila di catene, policy, organigrammi e flussi organizzativi da rispettare, divieti degli uffici legal e/o IT, etc. … che rallentano e non poco la dinamica. Meglio allora chiedere a qualcun altro di farlo per noi. A un Content Creator, per esempio?
  3. … esternalizzare alcuni ‘pezzi’ di marketing: da sempre, in azienda c’è una decisione binaria da prendere su molti punti. Farli in casa (make), o acquistarle dal mercato (buy)? Affidarsi ai content creator spesso solleva da diverse attività che altrimenti si sarebbero dovute fare internamente. Pensiamo solo alla fatica di fare crescere il profilo aziendale organicamente, piuttosto che fare gioco di sponda con i profili di qualcun altro che genera ormai quasi automaticamente effetti virali, empatia e follower.

Quindi, sono tutte rose questi Content Creator? La risposta è banale e scontata.

Sempre negli ultimi anni, interfacciandomi con manager e decision maker aziendali, ho riassunto altrettanti motivi di allerta (o meglio, di accortezza) nel loro coinvolgimento.

  1. La brand equity rischia grosso. Per decenni la pubblicità e le altre iniziative di brand building hanno generato marche iconiche, con un proprio linguaggio unico e una loro iconicità che non potevano essere scalfiti. Qualche mese fa, parlavo con il Direttore Editoriale di un brand globale di abbigliamento sportivo che mi raccontava del recente ingaggio di un importante Content Creator. Nella sua visione sarebbe stato sbagliato condividere con esso le linee guida del linguaggio della marca e portarlo così verso il mondo del brand; occorreva fare l’esatto opposto, permettergli di usare il proprio linguaggio in modo che la marca fosse accostata e assorbisse il più possibile. Un discorso a prima vista più che giusto (altrimenti, probabilmente non ne avrebbero avuto nemmeno bisogno), ma che a lungo andare mette a rischio letale la brand equity offuscandone le associazioni caratteristiche e i caratteri di unicità a favore di quella del Content Creator. Che, ricordo sempre, è a sua volta una marca…
  2. I discorsi della marca e sulla marca si abbassano. Per il motivo che ho appena citato, il Creator quasi mai è interessato al brand con cui collabora, quasi sempre è ben più interessato a prosperare. Inoltre, per definizione necessita di raggiungere centinaia di migliaia o addirittura milioni di persone. E se qualcosa o qualcuno diventa popolare, lo fa anche a discapito della complessità del contenuto, il quale deve diventare il più possibile comprensibile a chiunque. Ma se il Content creator agisce come ‘pezzo’ di brand voice, ti lascio chiudere il cerchio del pensiero rispetto alle possibili eccessive banalizzazioni e semplificazioni del linguaggio e dei messaggi. 👽
  3. La funzione Comunicazione e Marketing diventa un contenitore senza contenuto. Se il Marketing Manager diventa un mero orchestratore di risorse dal mercato, questo terzo rischio è palese. Lo stesso marketing diventa micro-marketing – effimero e di breve termine. Ma allora, riprendendo il nome di un’agenzia che adoro, chi costruirà le grandi marche del ventunesimo secolo?

Infine, un elemento che posso riassumere in “umano, troppo umano”: quando parliamo di Content Creator, infatti, ricordiamo che abbiamo pur sempre a che fare con persone. Che possono sbagliare, commettere errori, fare passi falsi. Lo scandalo italiano datato 2022 di Chiara Ferragni coinvolta in comunicazione (a prima vista di carattere anche sociale) dal brand Balocco deve fare riflettere sulla necessità di regole chiare e autentiche – in primis, a tutela delle persone.

Una delle massime nella Creator Industry, quando si ha a che fare con i Creator, è: se l’umano fallisce, ricorriamo al digitale.

Ecco allora un continuo fiorire di Virtual Creator (CGI avatar) o addirittura AI-powered influencer, su tutte l’attivissima (e attivista) Lil Miquela. Qualcuno li chiama Brandfluencatars, una crasi tra influencer e avatar. Profili creati a tavolino, Creator che di fatto non esistono e che vengono disegnati ad hoc ma che si comportano in modi a volte ancora più umani degli esseri umani.

Già. Ma anche dietro questi progetti stanno le persone, e non sempre con fini virtuosi o meramente conversazionali.

Pensiamo a Emily Pellegrini, una Creator che aveva fatto letteralmente perdere la testa a molti follower (tra cui diversi personaggi famosi) per via del suo aspetto e del suo modo di atteggiarsi nel digitale. Un profilo capace di raccogliere un’ampia follower base e altrettanti consensi in pochi mesi, per poi rivelarsi in tutto e per tutto fake. Non solo immagini e visual generati – o almeno ‘truccati’ – dall’AI Generativa. Oggi, se guardiamo il suo profilo, vediamo come la maggior parte delle foto di Emily sono state sostituite da contenuti sull’intelligenza artificiale e il business digitale.

Il bisogno di Normative

Anche i casi di Chiara e di Emily hanno portato diversi player istituzionali a iniziare a interessarsi alla Creator Economy anche da un punto di vista regolatorio.

In Italia, l’Italian Communications Authority – AGCOM si è mossa tra Natale 2023 e inizio 2024 verso la strutturazione di un palinsesto di normative a tutela delle persone e dei consumatori, che diventano vincolanti per gli stessi Content Creator. Regole che equiparano gli stessi Creator (a certe condizioni in termini di follower base, attività e capacità di stimolare l’audience) come produttori di contenuti audiovisivi, e che riguardano la necessità di trasparenza nelle comunicazioni, di fact checking pre-pubblicazione, di tutela delle fasce più deboli, che possono essere consultate in questo articolo.

Diversi altri stati stanno man mano regolando e regolamentando questo mondo – pensiamo nel Regno Unito al CAP Code e al CPRS. Ancora, negli Stati Uniti abbiamo le guidelines della Federal Trade Commission (FTC Guidelines).

Regole che divergono nei nomi e nelle sigle, ma convergono nella sostanza verso una comunicazione sempre più tutelante, sincera e rispettosa. Non sempre tali regole sono seguite, e non sempre la colpa è dei Creator. Per esempio, ha ormai qualche anno l’influencer trip sponsorizzato da Shein a Guangzhou (Cina) che si è trasformato in un boomerang per lo stesso brand, sempre più criticato e certamente non in ottima salute per quanto riguarda la propria reputazione.

Nel business, c’è un detto: gli USA inventano, la Cina copia, l’Europa blocca con la regolamentazione. Anche nel campo della Creator Economy, sembra di assistere a questa configurazione: nell’attesa di vederne gli sviluppi, buon coinvolgimento dei Creator nei progetti di comunicazione e ‘influenza’ aziendalecon un occhio e il cuore, in primis, per i vostri clienti.