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L’IA conversazionale è un tipo di intelligenza artificiale (IA) in grado di simulare conversazioni umane. Questo è reso possibile dall’elaborazione del linguaggio naturale (NLP), un campo dell’IA che consente ai computer di comprendere ed elaborare il linguaggio umano, e dai modelli su cui si basano le nuove funzionalità di IA generativa.
L’IA conversazionale funziona utilizzando una combinazione di elaborazione del linguaggio naturale (NLP), modelli di base e machine learning (ML).
I sistemi di IA conversazionale sono addestrati su grandi quantità di dati, come testo e voce. Questi dati vengono utilizzati per insegnare al sistema come comprendere ed elaborare il linguaggio umano. Il sistema poi utilizza queste conoscenze per interagire con gli esseri umani in modo naturale. Apprende costantemente dalle interazioni e migliora la qualità della risposta nel corso del tempo.
Google Cloud
Già da questa prima definizione riportata da Google Cloud, appare evidente il potenziale dell’AI Conversazionale nelle attività di interazione e di coinvolgimento degli utenti di qualsiasi azienda, settore, dimensione. L’IA conversazionale è in grado di riconoscere tutti i tipi di input vocali e testuali, ricalcare le interazioni umane e comprendere / rispondere a domande in molte lingue.
In effetti, la stessa presenta importanti vantaggi per imprenditori, manager e consulenti che decidono di implementarla nelle attività di marketing, comunicazione, CRM e customer experience in senso più ampio. Di seguito, ne elenco solo alcuni:
- riduzione dei costi e aumento della produttività e dell’efficienza operativa tramite l’automazione;
- riduzione dei potenziali errori umani nello svolgimento di specifiche attività;
- capacità di offrire un’esperienza coinvolgente, interattiva e olistica;
- attività always on del servizio offerto, 24 ore su 24 – 7 giorni su 7, quando non sono necessariamente presenti agenti umani.
- accessibilità. L’IA conversazionale può essere anche utilizzata per migliorare l’accessibilità dei clienti disabili. Può aiutare persone con conoscenze tecniche limitate, background linguistici diversi o casi d’uso non comuni.
Se questi sono solo alcuni dei principali plus dell’AI Conversazionale, d’altra parte sicuramente la stessa non è innocente a critiche – o meglio, a punti di attenzione.
Il primo, riguarda certamente un tema importante e rilevante che possiamo in modo un po’ nostalgico (chi in effetti lo ricorda tra gli esami dei corsi di psicologia applicata al mondo digitale di diversi anni fa?) nominare “interazione uomo-macchina”.
Proprio tale interazione non è banale, e va seriamente presa in considerazione nel momento in cui si desidera accelerare il percorso di trasformazione digitale aziendale anche grazie ai sistemi di AI Conversazionale.
L’Uncanny Valley dell’AI Conversazionale
Per spiegarmi meglio, riprendo ancora una teoria che amo usare (l’ho già fatto anche su questo blog) nella spiegazione di prodotti e strumenti di digital empathy.
La teoria della “Valle Inquietante” o “inspiegabile” è stata immaginata e sviluppata nel 1970 da Masahiro Mori, e sostiene che man mano che un robot condivide più caratteristiche con un umano la nostra empatia nei suoi confronti aumenta, generando una reazione positiva.
Arriva però un momento in cui davanti a questa figura umanoide tale sentimento cambia nettamente, generando rifiuto o avversione – una Valle inquietante, appunto – al grado di somiglianza di un’entità che non viene considerata al pari dell’essere umano.
Applicando la Teoria dell’Uncanny Valley all’AI Conversazionale, arriverà per essa un limite di umanizzazione che presuppone il rifiuto – per esempio, sostanziandosi nello shock di avere dall’altra parte della linea telefonica un CallBot in grado di gestire le richieste a basso valore aggiunto proprio come farebbe un essere umano, ma con una voce notevolmente robotica e metallica.
Ciò provoca un paradossale allontanamento della persona verso il sistema conversazionale aziendale, con ricadute negative sulla relazione più ampia verso l’azienda e il brand che ne viene rappresentano con i diversi prodotti. Un allontanamento reso ancora più grave dal fatto che, per sviluppare il progetto conversazionale, sono state investite risorse in termini economici e di competenze specifiche.
Questione di empatia (anche per l’AI)
Insomma: il nocciolo sta nell’equilibrio empatico che, nel progettare sistemi conversazionali, riusciremo a trovare.
Ma è possibile trovare o estrapolare empatia da un’AI?
Prima di provare a rispondere, è interessante riprendere lo spettro – ovvero, il sistema di livelli – dell’empatia che viene tipicamente usato per progettare sistemi e forme di interazione.
- la pena e la simpatia richiedono un minimo sforzo di comprensione dell’interlocutore;
- l’empatia e la compassione domandano coinvolgimento attivo capace di portare un cambiamento positivo.
A sua volta, l’empatia è data da tre principali driver:
- Congruenza dei sentimenti: chi prova empatia deve riuscire a mettersi nei panni dell’interlocutore. Questo primo punto distingue l’empatia da una mera comprensione razionale delle emozioni.
- Asimmetria: chi prova empatia prova tale emozione solo perché la possiede un altro individuo, ma essa è più adatta alla situazione dell’altro che alla propria.
- Consapevolezza dell’altro: deve esserci almeno una consapevolezza di base del fatto che stiamo avendo a che fare con i sentimenti di un altro individuo.
Dato questo trittico, è piuttosto evidente che l’AI non è un’entità empatica; piuttosto, essa riconosce le emozioni altrui sulla base di parametri o metriche (come l’espressione facciale). Nonostante tutto, si parla da tempo di AI empatiche (empathetic AI), proprio a sottolineare i modi che l’Intelligenza Artificiale viene sempre di più ad avere nei nostri confronti quando dialoghiamo con essa.
Per fare un esempio, immagino che chiunque abbia in mente la fluidità con cui ChatGPT risponde ai nostri comandi (prompt), facendoci talvolta sorridere o comunque intrigandoci nella conversazione.
Empatia, intelligenza artificiale e branding: la ricetta dell’interazione vincente?
Per comprendere a pieno il potenziale e le sfide dell’AI per ottimizzare le conversazioni di marca, faccio un passo indietro nelle teorie del brand management più classiche.
Secondo il branding archetipale, è fondamentale per ogni marca che vuole farsi conoscere e amare dal pubblico identificare il proprio archetipo di riferimento e seguirne le indicazioni in ogni azione di prodotto, di marketing e di comunicazione. Ogni archetipo ha infatti qualità essenziali, e allo stesso tempo un eccesso o un difetto di queste qualità rappresentano punti da gestire e prevedere per anticipare eventuali contro-narrazioni.
Se il brand è posizionato come sovrano (ruler), una narrativa apparentemente positiva che ne mette in luce la creatività genera confusione sulla sua identità. I miei ricordi personali più vividi riportano alla memoria personaggi come Bibendum (l’Omino Michelin) o le forme umane dei profumi La Femme e Le Male dello stilista Jean-Paul Gaultier.
I discorsi che collegano marche e archetipi valgono anche al tempo dell’Intelligenza Artificiale?
Certo. In primis per il loro ruolo di punti di contatto, di volti dell’azienda e di elementi di dialogo con le persone ‘mettendoci la faccia’. Chiara Longoni della Boston University e Luca Cian della University of Virginia hanno svolto una ricerca in 10 esperimenti su 3.000 persone, pubblicata sul Journal of Marketing. Come contraltare rispetto al word-of-mouth – il passaparola generato dalle persone che oggi ha un ruolo decisivo in qualsiasi customer journey – i due ricercatori parlano di word-of-machine intendendo le situazioni in cui preferiamo i consigli generati dall’AI rispetto a quelli di altre persone, o almeno li prendiamo seriamente in considerazione.
- Generalmente, se dobbiamo raggiungere obiettivi di acquisto utilitaristici o siamo concentrati sulle caratteristiche funzionali di ciò che acquistiamo (per esempio, se dobbiamo comprare una lavastoviglie), ci fidiamo dei consigli delle macchine.
- Quando però la scelta diventa esperienziale o entrano in gioco dimensioni edonistiche o sensoriali come aromi o fragranze (vini, profumi, …) i consigli e l’advisory dell’intelligenza artificiale non basta più e deve essere compensata da un tocco umano, generando casi di successo come quello di Stitch Fix, un servizio di styling personale che integra consigli AI-driven e human-driven.
Ma l’intelligenza artificiale è andata oltre: non solo aumentando le possibilità dei marketer di offrire un supporto ai clienti, ma facendo addirittura vivere gli archetipi attraverso un lavoro preciso sul tono di voce, il sesso, le modalità più efficaci di interazione con le persone e tra loro. Qualcosa che i responsabili del branding dovrebbero considerare sempre più seriamente. Penso agli AI assistant che fanno della capacità di generare empatia e vicinanza con la leva per entrare nella nostra quotidianità. Tanto che una delle frontiere dell’AI è quella delle macchine capaci di fare scherzi e giocare: già Siri diventa gelosa se viene chiamata per errore con il nome di soluzioni concorrenti e nemiche.
La Brand Personality ai tempi dell’AI
Esseri artificiali, dotati di forti personalità.
Si apre così un tema centrale per sviluppare i brand di domani, fatto di design e di storytelling. In effetti, secondo Ben Essen (Global Chief Strategy Officer nella londinese Iris):
costruire la personalità di un’intelligenza artificiale non è solo un problema per Google, Apple e Amazon. Si tratta di un impegno per qualsiasi marca che desidera comunicare direttamente con le persone.
Ben Essen
Un cambiamento rivoluzionario e rischioso.
Diventerà impossibile passare le conversazioni più complesse all’ufficio dedicato, per fare in modo che questo le tratti una alla volta – le tecnologie di intelligenza artificiale dovranno cavarsela da sole all’interno di scenari sfidanti, non prevedibili e non conosciuti.
Come fare? Metodi diversi seguono un solo principio riassunto dall’agenzia Designit nell’articolo Getting to Know You: Designing Trustworthy Artificial Personalities.
Gli esseri umani si comportano diversamente in funzione al fatto che si trovino a un appuntamento, con gli amici, a un colloquio di lavoro. Per guadagnare la nostra fiducia, le personalità delle AI dovrebbero essere capaci di conoscere il contesto allo stesso modo. Dopotutto le conversazioni sono sfumate, e ognuna racconta una storia diversa.
Designit
Oren Jacob, per più di vent’anni in Pixar e ora Engineering Lead in Apple, citato nello stesso articolo appena menzionato usa una metafora:
Si può pensare alle conversazioni delle macchine come uno screenwriting interattivo. Scriviamo le linee 1, 3, 5 e 7 ma poi, sfortunatamente, non abbiamo alcun controllo di ciò che può succedere alle linee 2, 4, 6 e 8”. Tutti noi sappiamo quando la nostra conoscenza raggiunge il limite e dobbiamo arrenderci. Ma cosa faranno i brand alimentati dalla forza dell’intelligenza artificiale? Diranno anche loro ‘non lo so’, prenderanno tempo per consultare Wikipedia o un’altra fonte di informazioni, o ancora tireranno a indovinare?
Oren Jacob in Designit
Sono questioni delicate da affrontare, perché ne vale dell’immagine complessiva della marca stessa. Un paradosso: ogni minimo errore del bot, programmato per sembrare il più possibile umano nelle conversazioni con persone e clienti, proprio per questa ragione può causare un danno reputazionale al brand al pari di un comportamento scorretto di un/a sales assistant in negozio.
Se comunque la personalizzazione di massa era ideale per un’economia ancora non orientata e modellata dall’AI, la stessa intelligenza artificiale e l’apprendimento automatico permettono di sviluppare la personalità del brand, rendendola più complessa per rispondere con efficacia alle chiacchierate originali e uniche con le persone. Queste IA diventano veri e propri personaggi, del tutto simili agli esseri umani e con ruoli articolati; e gli archetipi dovranno essere arricchiti da altri archetipi ‘ombra’ per intrecciare attributi dando loro ulteriore tensione e umanità. Non è più questione di progettare per uno scenario complesso perché VUCA, un acronimo introdotto agli inizi degli anni novanta dai cadetti dell’Accademia Militare dell’Esercito degli Stati Uniti per intendere un mondo Volatile, Incerto, Complesso, Ambiguo. Adesso si tratta di progettare per l’incertezza: nel marketing, l’intelligenza conversazionale è destinata a cambiare buona parte delle regole del marketing e del brand storytelling che già conosciamo. Siete pronti?